
Gola di Olduvai, Tanzania. Mary Leakley rinvenne qui l’Australopithecus boisei — Fotografia scattata da Eliana Marchese
L’evoluzione delle specie si attua attraverso l’acquisizione e il consolidamento nelle generazioni successive di nuove caratteristiche, comparse molto spesso in maniera casuale grazie a mutazioni geniche vantaggiose. La nostra specie non fa eccezione e il lungo processo di umanizzazione, che ha portato gli ominidi dai progenitori ardipiteci e australopiteci fino alla comparsa della specie Homo sapiens circa 200 000 anni fa, è stato regolato da una serie di adattamenti a vari fattori ambientali, fra cui fondamentale quello della nutrizione.
La nostra dieta, sostanzialmente onnivora, ci permette di sfruttare moltissime fonti alimentari, i vari cibi però si sono aggiunti in fasi differenti della nostra evoluzione. La strategia da sempre utilizzata (e ancora in atto ai nostri giorni) dall’uomo in cerca di risorse per la sua sopravvivenza è stata quella della migrazione, resa possibile dal consolidarsi di nuove caratteristiche anatomiche e funzionali che ne sostengono il costo e permettono un maggiore adattamento ai nuovi ambienti.
Lo stretto legame che unisce la migrazione alla nutrizione è messo bene in evidenza dall’analisi dei tre momenti più rilevanti della migrazione degli ominidi del Pleistocene: fuori dalla foresta, fuori dall’entroterra, fuori dall’Africa. Questi passaggi furono resi possibili da cambiamenti che hanno permesso l’espansione del cervello e della taglia corporea, cioè l’aumento dell’abilità organizzativa e dei muscoli indispensabili per affrontare simili avventure.
Cominciamo ad analizzare il primo passo, l’abbandono della vita arboricola della foresta pluviale africana, determinato non solo da una tendenza all’inaridimento che avrebbe reso più scarse le risorse, e dal bipedalismo necessario per liberare gli arti superiori che potevano acquisire maggiori abilità nel procurarsi il cibo, ma anche dalla selezione di un evento casuale.
Dopo la divergenza fra scimpanzé e ominini, il gene della catena pesante della miosina (MYH/16), una proteina espressa nei muscoli masticatori di uomini e scimmie, fu inattivato da una mutazione, con conseguente gracilizzazione e quindi diminuzione della forza contrattile di questi muscoli nelle specie Homo. Alcuni autori pensano che la minore rigidità delle ossa su cui essi erano inseriti abbia permesso l’espansione del cervello.
Tuttavia questa mutazione sarebbe stata un handicap per la sopravvivenza, se non ci fosse stato un cambiamento di dieta verso un cibo più tenero, come la carne e il midollo osseo delle carcasse animali, un cibo insolito per dei primati adattati a una vita arboricola come quella delle scimmie, soprattutto folivore (gorilla) o frugivore (scimpanzé) che richiede molto tempo dedicato alla masticazione per ricavarne i nutrienti necessari.
Fonti:
- G. Rotilio, E. Marchese — Nutritional factors in human dispersal — Ann Hum Biol. 2010 Jun;37(3):312-24
- G. Biondi, F. Martini, O. Rickards, G. Rotilio — In carne e ossa — GLF Editori Laterza, 2006
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