Capriccio dei potenti, omologazione del gusto, scoperta del territorio
L’orientamento verso la globalizzazione dell’economia e della cultura ha portato paradossalmente a esaltare il concetto di cucina e prodotti locali, o come si usa dire “territoriali”. L’avvio dell’industrializzazione ha dato infatti origine a una maggiore facilità di spostamento e di trasporto del cibo da luoghi lontani, rendendo accessibile a tutti gli strati sociali, almeno nei paesi più ricchi, il sogno dell’uomo di superare lo spazio e la stagionalità dei prodotti.
Nell’antichità, pur essendo l’alimentazione, soprattutto popolare, legata ai prodotti del luogo, non c’era affatto il desiderio di esaltare il concetto di territorialità, almeno come noi lo intendiamo oggi. Lo scopo di ogni bravo cuoco era quello di portare sulle tavole dei ricchi la maggior varietà possibile di cibi, e di apprezzare tutte le specialità. Questo è stato evidente sin nell’antica Roma sia, in seguito, nelle epoche successive.
Il concetto di cultura alimentare regionale nascerà in Italia solo in tempi recenti, con il consolidarsi dell’identità nazionale, quando il cibo, divenuto maggiormente disponibile, smetterà di essere un segno di distinzione sociale, e la semplificazione degli scambi delle merci metterà in risalto il valore della differenza e delle culture locali.
All’unificazione della nostra cultura anche in cucina contribuì non poco la pubblicazione, nel 1891, del famoso ricettario di Pellegrino Artusi La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, in cui le tradizioni locali sono state spesso reinventate e adattate al gusto medio degli Italiani.
Si cominciò in quel periodo a delineare un cambiamento del gusto, con la tendenza ad apprezzare i piatti semplici e naturali, opposti a quelli delle cucine antiche e medievali, in cui i cuochi avevano in compito di rielaborare i cibi equilibrandone artificiosamente i sapori.
L’alternarsi nella Storia dell’apprezzamento delle due tendenze ci fa riflettere sul fatto che i concetti che caratterizzano la cultura in generale, di “identità” e “scambio”, non sono contrapposti fra loro: analizzando l’origine di molti modelli alimentari, si può vedere che essi sono il frutto di continui scambi avvenuti nel tempo con le altre culture e che questi non hanno cancellato ma, anzi, arricchito l’identità originaria.
Prendiamo ad esempio il modello alimentare nato nell’area del Mediterraneo, basato su cereali, vino e olio, che ha caratterizzato il mondo romano: esso si è conservato nel Medioevo, integrandosi però dopo la disintegrazione dell’Impero Romano con la tradizione germanica, basata sul consumo di carne (soprattutto di maiale), prodotti di raccolta boschivi e birra.
Intanto sulle coste meridionali del Mediterraneo l’espansione della civiltà islamica, pur contrapponendosi a quella europea a causa di divieti religiosi a consumare carne di maiale e vino, ha introdotto attraverso la Sicilia e la Spagna nuovi prodotti come agrumi, riso, zucchero di canna, carciofi, spinaci e melanzane, che sono parte integrante della nostra cucina. Arabi e Saraceni hanno anche sviluppato nuove tecniche agricole e introdotto nella nostra cucina l’uso delle spezie, dell’agrodolce e della pasta secca.
Pensiamo poi a quante ricette, considerate tipicamente italiane, sarebbero irrealizzabili senza il pomodoro, il peperoncino, i fagioli, il mais, le patate, tutti prodotti giunti a noi dopo i viaggi di Colombo in America!
Penso che la minaccia a una sana alimentazione e a una gastronomia ricca non sia tanto il diffondersi della cucina etnica o dei fast food, che in fondo non sembrano sostituire il nostro tradizionale modo di mangiare. Quello che è più importante è che si continui a conoscere e apprezzare la qualità del cibo e la sua origine, con tutta la storia e la cultura che racchiude in sé, ma di questo parleremo nella seconda parte…
Per approfondimenti:
- M. Montanari — Il mondo in cucina — Laterza, 2002
- M. Montanari — Il cibo come cultura — GLF editori Laterza, 2004
Articoli correlati