Quando, 2300 anni fa, Aristotele ipotizzava l’esistenza di sette sapori fondamentali, non si riferiva allo stato percettivo della persona che degusta, ma allo stato fisico di ciò che è degustato. Per il filosofo greco il sapore costituiva cioè un attributo della materia e non una sensazione di chi mangia. La degustazione pertanto, per molti secoli, fu considerata semplicemente un prelievo, con la lingua e il palato, di un qualcosa che già esisteva all’interno del cibo.
Bisogna arrivare al tardo umanesimo, verso la seconda metà del 1500, e all’influenza del modello meccanicistico di Galilei e Cartesio, affinché si possa definitivamente assistere al ribaltamento delle teorie sulla percezione. «Sapori, odori, suoni, colori, non sono attributi presenti nella materia, ma soltanto attributi dell’animale senziente».
È quindi nella mente che quanto viene percepito dagli organi di senso diventa effettivamente gusto. Del resto già Sant’Agostino (354-430) era convinto che la percezione dovesse essere un’attività puramente psichica, superiore ai semplici processi fisici e fisiologici che avvengono nella cavità orale. «È l’anima che gusta, attraverso la bocca» dirà Gregorio Magno (540-604), suo seguace, a conferma di questo concetto.
Per comprendere l’importanza dell’elaborazione mentale del gusto non partiremo da ciò che accade in bocca, ma da molto prima. La mente si prepara infatti a gustare il cibo attraverso il coinvolgimento di altri sensi, come in una sorta di avangusto.
Il cibo si comincia a gustare già con la vista. Non per niente si dice «mangiare con gli occhi». Lo sanno bene gli chef, che curano sempre di più la presentazione dei cibi e dei piatti, ma anche i pubblicitari che sanno bene come fare presa sul potenziale consumatore, tanto da sottoporre le immagini dei cibi a un vero e proprio make-up.
Anche i profumi intervengono precocemente per informarci delle caratteristiche del cibo che stiamo per consumare (o per scegliere). La potente memoria olfattiva di cui siamo dotati ci permette inoltre di associare gli odori a eventi piacevoli o spiacevoli della nostra vita, influenzando così quanto sentiremo nel momento dell’assaggio.
E l’udito? Partecipa alla costruzione del gusto? Pensate alle bollicine che gorgogliano in un calice di spumante o al brontolio del sugo preparato dalla nonna, nel quale le bolle esplodono, lente e inesorabili, per ore e ore.
Ebbene, tutte queste informazioni vengono trasmesse a livello cerebrale prima ancora che il cibo sia portato alla bocca. Poi, una volta che il cibo varca la rima labiale, le papille gustative della lingua e del palato ricevono il segnale relativo ai sapori fondamentali e lo trasmettono, mediante i nervi cranici VII (faciale), IX (glossofaringeo) e X (vago), al nucleo del fascio solitario (NFS) nel bulbo encefalico. Da qui esso prenderà due vie: una verso il sistema limbico e un’altra, passando per il talamo, verso le aree corticali. A queste informazioni si aggiunge l’importante sensazione retrolfattiva. La masticazione e il calore corporeo permettono infatti la liberazione, in bocca, di molecole volatili che raggiungono posteriormente le cavità nasali e attivano i recettori olfattivi; questo segnale giunge direttamente alla zona limbica dell’encefalo tramite il nervo I (olfattivo) e il bulbo olfattivo.
E non finisce qui. In bocca percepiamo anche sensazioni somestesiche e chemestesiche che vengono veicolate dal nervo V (trigemino). Per sensibilità somestesica si intende la sensibilità tattile, termica, cenestesica (o viscerale) e propriocettiva. Si tratta quindi delle componenti del sapore che noi identifichiamo, ad esempio, con parole come: untuosità, cremosità, vellutatezza, rugosità, durezza, astringenza, pungenza, calore, freschezza, ecc. La chemestesi può essere invece definita come l’attivazione chimica di recettori per lo stimolo fisico. È una sorta di inganno dei recettori nervosi. Questo è il tipo di sensibilità che ci fa percepire come bruciore lo stimolo indotto dalla capsaicina del peperoncino o come freschezza quello provocato dalla molecola del mentolo.
È l’insieme di tutti questi stimoli, e dei ricordi da essi evocati, che permette al cervello di elaborare quello che noi chiamiamo, con una semplice parola, il gusto.
L’esperienza gustativa è quindi multisensoriale. Come dice il neurofisiologo André Holley: «Sono tutti i nostri sensi a essere invitati a pranzo». E dal multisensoriale all’affettivo, e all’emozionale, il passo è breve.
Per approfondimenti:
- I. Prosperi — Gnoseologia e fisiologia del gusto nella tradizione neoplatonica-agostiniana e in quella aristotelica-tomista — Tesi di Dottorato
- A. Tanzariello — Fisiologia del gusto
- A. Holley — Il cervello goloso — Bollati Boringhieri, 2009
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