È piuttosto inusuale che una giovane studentessa di un istituto professionale si diletti a scrivere. Che poi si piazzi nei primi dieci in un concorso letterario e veda pubblicato il proprio racconto su un’antologia, insieme a quelli di scrittori più esperti e più grandi di lei, è cosa veramente rara. Se, per giunta, il racconto affronta una storia di anoressia, il minimo che si possa fare è darle spazio anche sul nostro sito.
Il geco
Ore sette. Suona la sveglia. Ricomincia il tran tran quotidiano. Prendo una cosa da mangiare al volo, infilo la sciarpa rossa e sgattaiolo fuori di casa. Arrivo in metro e, nei due minuti e mezzo che mi separano dall’arrivo del treno addento il misero sandwich che avevo infilato in borsa, che schifo penso, ma ignoro le mie emozioni, ingoio e butto giù a forza. Salto sulla metro, mi sento un predone che attacca l’imbarcazione nemica. La mia giornata è ufficialmente iniziata.
Arrivo in redazione e come tutte le mattine vengo sommersa di finti buonismi. Stomachevole, quasi più del sandwich. Odio tutti, penso. La realtà è che odio anche me stessa, la mia debolezza, la mia fragilità emotiva, tutto ciò che mi rende Marta.
Stamattina non ce la faccio proprio.
Riapro gli occhi lentamente, intorno a me volti conosciuti e sconosciuti allo stesso tempo, sento voci lontane, quasi un fruscio assordante, intravedo le asettiche e bianche luci dei neon. Sono svenuta. Di nuovo. Non so come, ma riesco ad avere la consapevolezza dell’assenza del mio corpo, della Marta fisica che sta perdendo sempre di più i collegamenti con il mondo reale, concreto.
Ma il mio attaccamento alla vita ha prevalso nuovamente, sono le 10:15 e mi sono ripresa. Sono tornata di nuovo in vita, nella mia vita, insapore, inodore, incolore. Fortunatamente non sono finita in ospedale, questa volta mia madre non avrebbe fatto finta di non vedere come la costringo a fare da mesi, mi avrebbe mandato in uno di quei centri per malati come me. Mia madre non è Marta, lei è forte, orgogliosa, riesce a dare un nome e un cognome ai problemi e li affronta, senza paura. La ammiro, ma lei non lo sa.
Ma, sfortunatamente per me, io non sono mia madre e, per il momento, i miei colleghi perbenisti mi vanno più che bene. Mi portano l’acqua. Sono anoressica e mi porti l’acqua? Fai sul serio? Ma va bene così.
Nel bene o nel male questa giornata lavorativa è finita. Esco dalla redazione e non ho molta voglia di tornare a casa, ma ci tornerò.
Scendo in metro, un posto magico e puzzolente. Una strizzacervelli astratta che offre consulenze gratuite, non sempre indolori. Con un tuffo carpiato ti ritrovi dentro di te. Riesci a guardarti dentro e, in effetti, ironicamente, valuto che per guardarmi dentro non devo poi fare tanti sforzi, sono così magra. Il fatto che riesco a prendermi non troppo sul serio mi dà la forza di andare avanti, e forse un giorno mi aiuterà a guarire. Non so chi o cosa mi abbia spinto ad affogare in questa malattia che pensavo fosse un gioco all’inizio. Mi vedevo grassa, deforme e inadeguata. E ora? Come sono? Migliore? Sono felice? Avrei voglia di parlare con qualcuno, sfogarmi, ma con la malattia tante sono state le persone che mi hanno voltato le spalle, forse per paura, forse per menefreghismo. Meglio pensare alla paura, fa meno male.
Il mio sguardo si fissa su una florida ragazza che sta gustando quello che pare essere il gelato più buono dell’universo conosciuto. Le sue gote rosse mi ricordano due belle e grandi fragole estive. Sembra davvero felice, e la invidio un po’.
Che sbadata, devo scendere!
Risalendo in superficie mi accorgo che l’immagine di quella ragazza è ancora viva in me. Mi ha donato una sorta di tranquillità, mi ha fatto pensare alla Marta di un tempo che era felice, amava la vita, la stracciatella, il vento fresco in faccia, ma soprattutto che non aveva paura di chiedere aiuto. Questa volta la metro ha proprio esagerato, o forse sarà stata la botta in testa causata dallo svenimento?
Distrattamente questa mattina frugavo nell’armadio e mi sono imbattuta in questa pagina scritta da me dieci anni fa, almeno un centinaio simili. In questa però evinco una strana forza che nelle altre pagine era totalmente assente, pertanto mi accingo a leggerla. Dentro di me emozioni contrastanti, tenerezza e dispiacere, consapevolezza che non tutte sono state e saranno fortunate come me.
Mi rendo conto che la Marta di un tempo non è poi tanto distante da quella di ora, molte debolezze sono rimaste le stesse. Ma ora c’è una luce diversa intorno a me. Ora ho in mano la mia vita, riesco a indirizzarla io, con le mie decisioni, e non permetto a niente e a nessuno di interferire in tali decisioni. E mangio la stracciatella. Tanta stracciatella. Ah, dimenticavo, ora la mia mamma sa che la stimo infinitamente e che forse senza di lei non starei qui a gambe incrociate a pensare dell’anoressia un lontano ricordo.
Monica Di Matteo
IPSSAR “F. De Cecco” — Pescara
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