Pubblichiamo oggi il contributo della dottoressa Manuela Fè, Biologa Nutrizionista, sulla prevenzione dell’Alzheimer
La malattia di Alzheimer è una malattia neurodegenerativa che porta alla lenta e progressiva perdita delle funzioni cerebrali.
Questa patologia prende il nome dal neuropatologo tedesco Alois Alzheimer che per primo, nel 1907, ne descrisse i sintomi e gli aspetti neuropatologici. Fino ad allora infatti, la malattia rientrava nella più generica categoria delle demenze senili, in cui i deficit cognitivi venivano attribuiti a un generale invecchiamento del sistema nervoso centrale.
A capo di tutte le nostre funzioni più complesse — pensieri, sensazioni, linguaggio, ricordi, apprendimento — c’è il nostro cervello, un organo che pesa poco più di 1300 g, diviso in due emisferi, destro e sinistro, e costituito da 100 miliardi di neuroni. Queste cellule altamente specializzate si connettono tramite prolungamenti per costituire una rete nervosa in grado di far viaggiare gli stimoli, elaborare risposte e inviare segnali a tutto il resto del corpo.
I vari segnali sono trasmessi dalle cellule nervose come piccole scariche elettriche che si propagano lungo i prolungamenti neuronali, chiamati assoni, e raggiungono i punti di connessione tra una cellula e l’altra. Questi “varchi”, detti sinapsi, sono cruciali per la propagazione del segnale; ogni volta che la carica elettrica raggiunge una sinapsi, la cellula libera un neurotrasmettitore, un messaggero chimico, che trasporta il segnale alla cellula successiva. Si stima che nel nostro cervello siano presenti circa 100 trilioni di sinapsi.
I neuroscienziati hanno osservato che nel cervello dei malati di Alzheimer si formano delle placche tra i neuroni che ostacolano la funzione del neurotrasmettitore, bloccando le sinapsi.
Le placche osservate sono costituite dalla proteina B-amiloide, una proteina molto abbondante nel sistema nervoso centrale, normalmente collocata a livello della membrana plasmatica, che nella malattia però, per qualche ragione non ancora del tutto chiara, si accumula all’esterno delle cellule, causando gravi danni al cervello.
Un’altra caratteristica osservata nel cervello di malati di Alzheimer sono degli ammassi fibrillari di un’altra proteina chiamata proteina Tau; anche in questo caso si tratta di formazioni anomale di una proteina largamente espressa nel tessuto nervoso, che però improvvisamente si addensa in strutture dannose all’interno della cellula compromettendo le sue funzioni, tanto che alla fine la cellula nervosa muore.
Queste manifestazioni fisiopatologiche sono probabilmente responsabili dei sintomi della malattia e della degenerazione di una popolazione particolare di neuroni chiamati colinergici (poiché rilasciano il neurotrasmettitore acetilcolina), deputati a funzioni complesse come il ragionamento e la memoria.
Caratteristica della malattia è che inizia sempre in una determinata area del cervello: l’ippocampo.
L’ippocampo è un’area posta in profondità nel nostro cervello, deputata alla memoria e all’apprendimento.
È molto importante riconoscere precocemente i segni della malattia: piccoli deficit di memoria, difficoltà di pianificazione, lieve stato confusionale.
Solo in rari casi la malattia è geneticamente determinata, il più delle volte la manifestazione della malattia è il frutto di una predisposizione genetica associata a stile di vita e fattori ambientali.
Importanti studi hanno messo in luce che consumo di alcol, colesterolo alto, diabete, obesità e fumo sono fortemente associati a un aumento di rischio di contrarre l’Alzheimer sopra i 65 anni.
Esiste anche una stretta correlazione tra dieta e fattore di rischio. Si è visto per esempio che in Giappone, negli ultimi 50 anni, c’è stato un cambiamento nelle abitudini alimentari della popolazione con forte aumento del consumo di proteine e grassi di derivazione animale, a discapito di quelle vegetali; ciò ha portato come conseguenza un innalzamento dei casi di Alzheimer dall’1% (registrato fino agli anni ottanta) al 7% (del 2008).
Indagini di questo tipo, per verificare il rapporto tra le abitudini alimentari e il rischio di Alzheimer, sono state condotte anche in diversi Paesi in via di sviluppo e si è visto che anche in questi casi esiste una correlazione tra aumento dell’incidenza della malattia e cambiamento di abitudini alimentari.
Con l’aumento del benessere economico queste popolazioni hanno aumentato il loro apporto energetico giornaliero, contemporaneamente il rischio di malattia è aumentato indicando uno stretto legame tra l’insorgenza della patologia e sovrappeso o obesità.
Tutte queste evidenze ci mostrano chiaramente che la malattia ha molto a che fare con lo stile di vita che scegliamo durante la tutto l’arco della nostra vita.
L’avviso è quello di diminuire i prodotti di origine animale, in modo che non superino il 15% del nostro apporto energetico totale, moderare l’introito energetico e controllare il proprio peso evitando accuratamente sovrappeso e obesità.
Altri studi si sono focalizzati sul ruolo dell’attività fisica ed è stato visto, tramite osservazioni basate su risonanza magnetica del cervello di soggetti geneticamente predisposti, che nello stesso periodo di tempo la grandezza dell’ippocampo rimaneva invariata nei soggetti che praticavano un’attività fisica di almeno 3 ore a settimana (anche solo camminate), mentre diminuiva di oltre il 3% nei soggetti sedentari che non praticavano alcuna attività.
Si può affermare quindi che l’attività fisica previene e ritarda l’atrofia dell’ippocampo e migliora le capacità cognitive.
Un ruolo importante nella prevenzione e nel rallentamento del decorso della malattia lo hanno anche gli antiossidanti, in particolare volevo porre l’attenzione sui polifenoli dell’uva. Nello specifico, i flavonoidi estratti dai semi di uva, i cui composti principali sono catechine, epicatechine e acido gallico. Si è visto che, sia in vitro sia su cavie da laboratorio, questo estratto è in grado di ridurre non solo l’accumulo di placche amiloidi, ma anche di impedire l’aggregazione intracellulare di proteina Tau. Inoltre, l’estratto mostra anche la capacità di disgregare frammenti già formati rendendoli più accessibili alle proteasi e quindi promuovendone la naturale degradazione.
Il meccanismo di azione di questi fitochimici si basa sulla loro analogia chimica e strutturale con inibitori dell’aggregazione della proteina Tau.
Questi composti sembrano perciò molto interessanti, sia come prevenzione sia per ritardare il decorso della malattia. In commercio si trovano sotto il nome di GSPE (Grape seed Polyphenol extract) e si possono assumere come integratori; hanno anche il vantaggio di non avere affetti avversi, né particolari controindicazioni.
Non essendo ancora state trovate cure per l’Alzheimer, quello che di meglio possiamo fare è prevenire e rallentare il suo decorso.
Fonti:
- Smith JC, et al. — Physical activity reduces Hippocampal atrophy in elders at genetic risk for Alzheimer’s disease — Front Aging Neurosci. 2014 Apr 23;6:61. doi: 10.3389/fnagi.2014.00061
- Ho L, et al. — Grape seed polyphenolic extract as a potential novel therapeutic agent in tauopathies — J Alzheimers Dis 2009;16(2):433-9. doi: 10.3233/JAD-2009-0969
- Ono K, et al. — Effects of grape seed-derived polyphenols on amyloid beta-protein self-assembly and cytotoxicity — J. Biol. Chem, 2008 Nov 21;283(47):32176-87. doi: 10.1074/jbc.M806154200
- Buèe L, et al. — Tau protein isoforms, phosphorylation and role in neurodegenerative disorders — Brain Res Riv, 2000 Aug;33(1):95-130
- Grant WB, — Trends in diet and alzheimer’s disease during the nutrition transition in japan and developing countries — J of Alzheimer Disease. 2014;38(3):611-20. doi: 10.3233/JAD-130719
- Wang G, et al. — Grape-derived polyphenolics prevent Abeta oligomerization and attenuate cognitive deterioration in a mouse model of Alzheimer’s — J Neurosci. 2008 Jun 18;28(25):6388-92. doi: 10.1523