Ed eccoci qui, al mercato o al ristorante, assaliti da dubbi onnivori, alcuni ancestrali, altri del tutto inediti. Compro le mele normali o quelle biologiche? E in questo caso quelle di produzione locale o d’importazione? Il pesce selvaggio o quello d’allevamento? Olio di semi, burro o margarina di soia? E se diventassi vegetariano? Magari vegano? Siamo tornati indietro: come un cacciatore-raccoglitore nella foresta, posto di fronte a un fungo mai visto, deve fare ricorso ai sensi e alla memoria per capire se valga la pena raccoglierlo, così noi ci aggiriamo nei negozi, soppesiamo pacchi, scrutiamo etichette, ci chiediamo il significato di espressioni come «omega tre», «privo di grassi trans», «allevato all’aperto». Che cosa saranno mai gli aromi naturali per grigliate, il TBHQ o la gomma xantana? E soprattutto, come diavolo sono finiti nelle cose che mangiamo?
Il «dilemma dell’onnivoro» non è una novità: si ritrova già negli scritti di Rousseau o Brillat-Savarin, anche se è stato battezzato ufficialmente circa trent’anni fa dallo psicologo Paul Rozin. Pollan ha preso in prestito questa espressione per mettere sotto una lente d’ingrandimento i tormenti alimentari tipici del nostro tempo. Il libro in questione vuole provare a dare una risposta, lunga e articolata, a una domanda in apparenza molto semplice: cosa mangiare per pranzo?
Per approfondimenti:
M. Pollan — Il dilemma dell’onnivoro — Adelphi, 2008