Articolo originale della dottoressa Teresa Casacchia
Biologicamente, l’uomo utilizza il cibo come mezzo per garantirsi l’energia necessaria per vivere, crescere e riprodursi ma, le relazioni che lo legano all’alimentazione, intese comportamento di ricerca o meno del cibo, sono molto complesse e tutt’ora non del tutto conosciute.
Tra i vari bisogni dell’uomo, quello dell’affermarsi, dell’auto-realizzarsi, del bisogno di stima (e di autostima), di conoscenza e di sapere, esiste un bisogno molto più grande, che ci dovrebbe far comprendere quanto la complessa macchina umana sia assolutamente imprevedibile. Mi riferisco al necessario bisogno del piacere. Un piacere che l’uomo raggiunge solo soddisfacendo alcune delle necessità più primordiali che lo legano alla vita: l’autodifesa, la pratica sessuale e il cibo. Ed è proprio su quest’ultimo aspetto che vorrei soffermarmi, nonostante molto ci sarebbe da discutere sugli altri due punti.
Quando si parla di cibo, di mangiare, di cucina, soprattutto se questo argomento è tenuto da una persona in sovrappeso od obesa, è frequente scontrarsi con il (pre)giudizio della società, oramai assolutamente plasmata da certi modelli estetici, che tende a giudicare le persone più dal proprio aspetto fisico che non dalle cose che dicono. E certe volte, esagerando palesemente, a catalogarle come “mangioni incapaci di controllare la propria ingordigia” senza pensare a quanto reale danno si sta creando all’autostima del singolo.
Quello che, ahimè, la maggior parte della gente non sa, e che spesso il mondo scientifico dimentica, è che l’uomo non mangia sempre cibo inteso come “alimento-nutriente”, ma mangia emozioni. Si nutre di qualcosa capace di trasferire qualcosa, che sia un sentimento o la sensazione di un momento.
Alcuni piatti a base di particolari alimenti, per esempio, stimolano alcune sensazioni piuttosto che altre, dando forza, coraggio, innalzando i livelli di umore in un momento di tristezza o di delusione o finanche di stanchezza. È risaputo che il quadretto di cioccolato fa sentire meglio molto più di una carota! Per quanto dietro questo comportamento si nasconda una spiegazione scientifica, è pur vero che la soddisfazione di mangiare quel fragrante, avvolgente e profumato quadretto dal perlage fine e delicato è davvero tanta e non paragonabile a nessun’altra sensazione. Se pensiamo, per esempio, a cosa succede a una donna in sindrome premestruale, nulla di più veritiero è che si riesca a tenerla a bada più facilmente regalandole scatole di cioccolatini che non un mazzo di rose.
Tuttavia molti salutisti, che io definisco “estremisti alimentari”, sono convinti che alcuni cibi vadano assolutamente aboliti dalla dieta perché fortemente ingrassanti e dannosi per la salute (su quest’ultima affermazione ci sarebbe molto da discutere ma prometto di ritornarci nel prossimo futuro). È frequente infatti sentire parlare, nella mia pratica quotidiana, di diete fai da te o di consigli nutrizionali da “risultati stravolgenti”, che si basano su regimi fortemente ipocalorici e sbilanciati (per esempio, sulla totale abolizione di carboidrati e periodicamente anche di grassi) che per quanto possa portare, in brevissimo tempo, a risultati estetici assolutamente apprezzabili, non permette di acquisire una consapevolezza alimentare. Reputo infatti che il danno più grave, si racchiuda proprio in questa tipologia di approccio dietetico che non considera l’aspetto personale, intimo, biologico e psicologico del soggetto, ma solo quello estetico-culturale.
Personalmente, sono fermamente convinta che una dieta, intesa proprio come termine etimologico e non come accezione comune, affinché sia corretta e bilanciata deve necessariamente avere tutti gli alimenti che fanno parte della cultura e della tradizione del soggetto (e ai quali il soggetto è legato emotivamente) senza distinzione tra cibi buoni e cibi cattivi in quanto, in realtà, sarebbe più giusto parlare di porzioni giuste e porzioni sbagliate. Proprio per tale ragione, ritengo che alla base di una dieta ci debba essere prima di tutto una informazione nutrizionale corretta, necessaria per rendere la persona consapevole di ciò di cui ha realmente bisogno biologicamente e psicologicamente e poi, a seguire, un sano percorso di educazione alimentare che renda autonomi davanti al piatto (anche davanti una bella carbonara!).