Mi slaccio il grembiule, scendo i tre gradini che portano nella dispensa e nel retro della cucina, mi infilo nello spogliatoio e tolgo la giacca nera. Resto in canottiera. Intreccio le dita e stendo le braccia verso l’alto, fino a far scrocchiare le scapole. Indosso la felpa, afferro un bicchiere mentre il caposala finisce di fare i conti, lo riempio di birra e vado fuori, accosto il naso alla vetrata con le mani a coppa intorno agli occhi per evitare i riflessi dei lampioni. Dentro i clienti del ristorante si attardano con un dolce, un caffè o un amaro mentre si godono il camino acceso e la luce soffusa. Mi sembra di sentire l’eco del suono di ogni singola mandibola che ha masticato quello che è uscito dalla mia cucina. Ogni tavolo ha la sua storia e in ognuna io sono entrato almeno un po’, questa sera.
Chiunque cucini, che sia per lavoro, per il partner o per la propria famiglia, mette un po’ di se stesso nel piatto che prepara. Lo sa bene Leonardo Lucarelli, giovane chef che racconta la propria vita attraverso le fiamme dei fornelli sui quali ha cucinato, i coltelli con cui ha finemente tagliato, e le tecniche che ha sapientemente imparato.
Ne deriva un romanzo sui nostri tempi, sui bisogni di una generazione, sulle piaghe del lavoro nero diffuso anche nelle cucine.
Perché il lavoro in cucina è estremamente più duro di quel mondo dorato che la televisione e i media vogliono proporci: cucinare è certo frutto di passione, ma implica molto impegno e tante umiliazioni.
Alla fine, al lettore che ha acquistato il libro perché amante del cibo e della buona tavola, risuonerà l’eco di un’affermazione dell’autore, che in un passo dichiara: «Penso ancora che il cibo sia il mio alibi e non il mio destino».
Dottoressa Francesca Pia Menanno
Per approfondimenti:
L. Lucarelli L — Carne trita — Garzanti, 2016