Prendi un hamburger, con ketchup o con maionese, un cartoccio di patatine fritte, una coca cola e fanne la tua cena. Il giorno dopo scegli ciambelle fritte, con succo d’acero o marmellata, una bevanda calda al cacao e mangiali a colazione. Fa’ ancora che lo stesso hamburger, le stesse patatine e la stessa coca cola della cena, divengano anche il tuo pranzo. Prosegui così, a ripetizione, a cena, a colazione, a pranzo e poi ancora a cena per un mese. Menu? Formato super size, ovvio.
Cosa accadrà ce lo racconta Morgan Spurlock, regista e interprete di Super Size Me, film documentario datato 2004. Un must della lotta ai fast food.
L’iniziativa di Spurlock origina da un episodio di cronaca risalente al 2002, quando due ragazze statunitensi citarono in giudizio la catena fast food McDonald’s con l’accusa «se siamo grasse, è sua la colpa». È così che l’autore televisivo decide di farsi filmare ventiquattro ore al giorno, mentre ingurgita panini e cibi unti, il tutto monitorato da un corteo di medici che tengono il polso di colesterolo e trigliceridi e nutrizionisti che valutano peso e percentuale di massa grassa.
L’epilogo è un programma già scritto, ma che vale assolutamente la pena guardare.
Al di là del prevedibile messaggio politico-sociale che avvolge il film e gli conferisce il nemmeno troppo velato retrogusto no global, di Super Size Me mi colpisce tutt’altro: una scena che a mio avviso vale tutto il film. Spurlock, a una settimana dal suo esperimento, apre lo sportello della macchina e vomita con gli occhi fuori dalle orbite il pasto, contorcendosi tra nausee e conati, come se il corpo avesse messo improvvisamente in atto i fisiologici meccanismi di difesa dall’iperalimentazione. Laddove, solo dopo qualche giorno in più lo ritroviamo, a pasto concluso, a desiderare già impaziente e bramoso il successivo.
In tempi in cui non si parlava ancora di dipendenza psicologica da cibo ipercalorico, Super Size Me ne dava già una testimonianza concreta. Il tutto sulle note di una bella colonna sonora, che non guasta.