È sempre bello entrare in quel negozio, vale la pena del viaggio, perché si può sempre desiderare se non comprare, e ci sono cose che vengono probabilmente da lontano, dopo aver viaggiato per le Ande a dorso di lama o per i Mari Malesi su veloci prahos (è insito, nella natura dei prahos, l’essere veloci). Ci sono le zucche marucche di sconcertante grandiosità bergnoccolósa, così capòdeghe, terse, marmoree, da scambiarle per finte, le prime volte, come le frutta su quei vassoi che le zie tutte sempre hanno e te ne darebbero anche, se non fossero, come per insulto al tuo desire, di cera; zucche alcune spaccate che sciorinano cavità gialle colme di romèlle; altre, giallo pallido che si trasforma in un giallo dorato che scivola nel marron, già cotte, pronte all’uso, e senza romeline, finite probabilmente a dormire, salate e tostate, in qualche ripostiglio di cine, pronte a finire in scartocini di carta da giornale o schedine della Sìsal. C’è la succulenta dolcezza della patata americana, un po’ raggrinzita dal forno ma vuoi mettere con le nostre, perché gli americani ciàn tutto più tògo? Osservi l’aranciata curiosità dei cachi, così pastosi e ramati, che sai generosi del loro sapore (non costano un granché) quando li ciucci lento col cuchiaino, fino ad arrivare alle, grosse romèlle del mezzo che risballotti di qua e là como caramella, fino a romperne infine l’involucro da cartilagine che mastichi sputando fuori i semi per contemplarli, ben sapendo che anche quella gioia se n’è fuìta. Ci sono le cassette dei portogalli che costan troppo e da qui a natale ce n’è ancora del tempo, ma sai che allora potrai prolungare la sibarìzia del sapore prima attendendo di pelarlo, non ratto e sbrigativo ma in forme di compiuta artisticità, spicchi di fiori, scimmiette, lunghe spirali, poi essa buccia schiacciando contro ad una fiamma accesa che scoppiettando si ravviva (c’è l’alcol, dicono) o mettendola a seccare sulla piastra dell’economica, da farci, dopo, le bucce aromatiche per le sape o per i farciti bensóni natalizi.
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Ma, mentre sei lì che guardi e stupisci, improvvisamente qualcosa accade dentro di te, una specie di miracolo che da chimico diventa morale e qualcosa di più. Sarà quell’odore generale che sai però scomporre nei tanti odori presenti, nei colori dei datteri e dei fichi secchi, nelle carte trasparenti rosso dorate di minio e porporina delle melarance e dei tangerini, nel giallo a cornetta dei limoni, nel roseo brunire delle remolate melagrane che, se crepate, mostrano il loro ventre gonfio di chicchi rubescenti e traslucidi, nello scuro deciso delle nespole che ormai disconoscevi e ben conosci, nella varietà a tavolozza carnascialesca dei pomi lazzarini, ma soprattutto nel terroso e dolciastro aroma di cotto e di forno della zucca, delle patate americane, delle rubizze rape, e nelle teglie di pere e cipolle e pomi cotti. Sarà in tutto questo e in altro ancora che non sai vedere o cogliere a fondo, ma il tuo acido desossiribonuclèico si ridesta e compie il prodigio della trasformazione, della rivelazione di un’appartenenza etnica, e i tuoi antenati che prima di te avevano corso quella stessa pianura ti fanno capire la fumana e tutte le sue conseguenze e facce, te le fanno sentire roba di casa.
Francesco Guccini, raccontando gli anni della sua adolescenza, descrive il negozio del fruttivendolo, che gli appare in una giornata di nebbia come un luogo esotico. Capisco che non tutti possano essere in condizione di decifrare completamente il linguaggio modenese degli anni sessanta, ma credo che riesca a comunicare a tutti il fascino di questo luogo e dei suoi prodotti.
Per leggere tutta la storia:
F. Guccini — Vacca d’un cane — Feltrinelli 2002