Arthur Opp mangia quello che vuole e tutte le volte che vuole. È talmente grasso che, come un violoncello imprigionato dentro una custodia, non esce più di casa. Da diciotto anni non fa più il professore, da una decina d’anni non sale ai piani superiori della sua casa. Tutto quello di cui ha bisogno è al piano terra, nel suo piccolo mondo. Per liberarsi dei rifiuti lancia i sacchi della spazzatura sul marciapiede dal primo gradino, a notte fonda, quando fuori è buio. Per mangiare ordina tutto su internet. Pesa più di duecentoventi chili e gli manca il fiato quando fa più di sei o sette gradini, ma si sente al sicuro nel suo rifugio, lontano dalle illusioni, dalla crudeltà e dalle vane speranze della vita di fuori, a occuparsi soltanto dell’unica cosa che gli sta a cuore: il suo rapporto epistolare con Charlene Turner, una ex allieva che gli ha appena confessato di avere un figlio, Kel, un ragazzone di 17 anni, una giovane promessa del baseball, di cui lui, Arthur, dovrebbe prendersi cura. Ma come può prendersi cura di qualcuno o di qualcosa quel vecchio professore rintanato nel chiuso della sua stanza?
Ci sono realtà che ci sfuggono, come ad esempio quella di un ex professore, che dopo il pensionamento si rintana in casa e raggiunge i duecentoventi chili. Perché accade questo? Depressione? Desiderio di proteggersi dalle crudeltà della vita e dalla malinconia dei ricordi? Qualsiasi sia la motivazione che conduca un uomo all’isolamento e all’obesità grave, questa non può essere solamente “mancanza di volontà e indolenza”. Le radici dell’obesità vanno ritrovate nella sfera psicologica e dei sentimenti di chi ne soffre. La vita del vecchio professore Arthur Opp è davvero un gran bel romanzo, la cui lettura ci porta alla scoperta di uomo di grande dignità.
Per approfondimenti:
L. Moore ‒ Il peso ‒ Neri Pozza, 2012